Due ragazzi attorno ai trenta. Dalila e Umberto. Si sono amati per alcuni anni, condividendo gioie e dolori della vita quotidiana. Aspirazioni, sogni e speranze. Lamentele, delusioni e frustrazioni. E sono proprio loro che, ora per accusa, ora per ripicca, ora per nostalgia, prendono il pubblico per mano e lo accompagnano in un viaggio all’interno della loro storia.
Storia che però non è finita bene per un motivo ben preciso: i figli.
Che non hanno, ma di cui s’inizia a parlare. Perché entrambi… non vogliono averne. Nella maniera più assoluta! Per i più disparati motivi…
Finché lui non cambia idea.
Lei, però, è sterile. E lui questo non lo sa.
Come dicevano i greci, la tragedia arriva con l’atto della conoscenza. Portando con sé un rancore sconosciuto fino ad allora, e spazzando via ogni residuo della loro complicità.
I due si lasciano. Lei, spinta dal non avere più nulla che la tenga in un paese che non le offre possibilità, decide di accettare il lavoro dei suoi sogni e trasferirsi in Norvegia.
Ma chi ha cambiato idea una volta è destinato a farlo ancora, e il ritorno di Umberto potrebbe cambiare nuovamente le carte in tavola…
Note di regia
Ciò che mi ha mosso sin da subito a voler mettere in scena questa storia, era la volontà di raccontare l’amore di due ragazzi normali, di questo tempo. Di aprire, attraverso la loro storia d’amore, una porta sul mondo di un’intera generazione. Perché troppe sono le cose che sono cambiate nel corso degli ultimi trent’anni.
Se per la generazione dei nostri genitori era assolutamente normale a venticinque anni essere già stabili e sistemati, con lavori ben retribuiti e uno sguardo ottimista verso il futuro, questo è divenuto quasi impossibile per noi trentenni di oggi. Ed è proprio questo che mi ha portato a riflettere sulla genitorialità.
Si potrebbe infatti dire, quasi ironicamente, che questo spettacolo sia ‘figlio’ di tante domande che, negli ultimi anni, mi pongo su questo tema.
In un’Italia sempre più anagraficamente vecchia e sempre meno a misura di giovane, e – allargando il campo – in un mondo sempre più inospitale alla vita umana… si può davvero pensare, in termini biologici – tanto cari a Dalila, aspirante biologa marina che si ritrova, precaria, ad allestire le vetrine di un Museo di Storia Naturale – di portare avanti la specie?
E quanto sono reali le motivazioni che spesso io e tanti altri miei coetanei adottiamo a sostegno del nostro non volerlo fare?
E’ davvero una mancanza di volontà la motivazione profonda, o invece più il riflesso di una sensazione cronica d’inadeguatezza data dalla difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo, che ci spinge in questa direzione?
Nel portare avanti la storia ho – forse inconsciamente – optato per questa seconda ipotesi.
Perché quando le cose iniziano ad andare meglio dal punto di vista economico e lavorativo, Umberto cambia idea. (Mosso anche dalla nascita di suo nipote, che gli darà modo – tramite sua sorella – di vedere anche tutti gli aspetti meravigliosi dell’essere genitore).
Ma cambiare idea è un lusso che solo lui può concedersi. Perché Dalila, invece, è sterile. Fisicamente inadatta ad accogliere la vita. E sebbene dichiari anche lei, inizialmente, di non avere alcuna voglia di mettere al mondo un bambino, cova in realtà da sempre un grande desiderio di maternità, probabilmente anche influenzata da una società che troppo facilmente – almeno fino a qualche anno fa – relegava le donne al ruolo di madri.
La sofferenza in lei è troppa, seppur apparentemente sopita. Ed è tale da alimentare il suo mostro interiore: la paura che dicendo la verità ad Umberto, potrebbe perderlo per sempre.
Decide quindi di tenergli nascosta la sua sterilità, forse nella speranza che Umberto cambi nuovamente idea. E, per un anno, i due provano ad avere un bambino.
Fino al punto di non ritorno. Il ritrovamento, da parte di Dalila, di un paio di scarpine da bebè acquistate da Umberto in previsione del lieto evento. E’ questo a farle capire che le cose non cambieranno tanto facilmente, e decide che non può più tenersi tutto per sé, che è arrivato il momento di uscire allo scoperto. Per cercare di affrontare la cosa insieme.
Ma i danni sono irreparabili. A ferire Umberto non è la sterilità di Dalila, ma il suo silenzio, la sua omissione. Il non-detto. E’ questo che fa perdere la fiducia, ed è questo che causa la rottura tra i due. Che, infatti, non si sono mai più visti… fino al presente. Al momento dello spettacolo. Dove, dopo aver rievocato il loro passato, avranno finalmente modo di riguardarsi negli occhi, parlarsi e capire cosa vogliono essere l’uno per l’altra.
Alcune doverose considerazioni: la sterilità è un argomento ingombrante. Già moltissimi artisti e artiste si sono confrontati con questo tema, sviscerandolo ed analizzandolo da diversi punti di vista. La mia intenzione non è mai stata quella di rendere quest’argomento il tema dello spettacolo. “DUE” non parla di una donna sterile, ma – come il titolo stesso suggerisce – parla appunto di una coppia. Di due anime fragili che trovano, l’una nell’altra, fonte di sostegno e di conforto. Dell’amore che li unisce, sentimento universale eppure così sfuggente ed incomprensibile. E anche della mutevolezza dell’animo umano. Di come sia possibile essere convinti di qualcosa fin dentro le ossa, per ritrovarsi poi a cambiare completamente idea solo un paio d’anni più tardi.
Insomma, “DUE – Canto di balene per pinguini soli” è una storia che mi premeva raccontare. Che nasce da un’esigenza profonda di indagare chi sono e chi voglio essere, come individuo e come artista. Ed è una storia che, in diversi momenti, preme per essere raccontata anche in scena, impedendo ai due protagonisti di tergiversare in momenti piacevoli del passato, per costringerli ad affrontare quei punti critici che spesso non vogliamo vedere e ignoriamo. Per spingerli a confrontarsi su ciò che è necessario.
In questo mio primo spettacolo ho scelto la via della semplicità. Non perché fosse la più facile, ma per scelta poetica. Nei venti minuti presentati al Premio Scenario 2023 infatti, in scena, oltre ai due attori, ci sono solo due sedie e un paio di scarpe da bebè.
Pare che Hemingway fosse solito, con altri scrittori, sfidarsi in un gioco da bar: raccontare una storia in sei parole. E pare che un giorno vinse a questo gioco scrivendo su un tovagliolo: “Vendesi scarpe da bambino mai usate.”
Vorrei poter dire che questa storia, così dilaniante nel suo minimalismo, mi abbia ispirato tanto nello stile della scrittura – asciutto e realistico – quanto in quello della regia, improntata all’essenzialità.
Ma non sarebbe del tutto vero, per due ragioni. La prima è che quest’aneddoto di Hemingway mi è capitato di leggerlo a testo praticamente ultimato. La seconda è che ad ispirarmi è stato un altro concetto: l’apertura.
In un mondo teatrale che sempre più spesso si chiude in se stesso, la mia scelta è stata sin da subito quella di aprirmi al pubblico. Di renderlo il confidente, l’amico impiccione dei miei personaggi. Cercando di rendere già le prime battute – un “Ciao” rivolto direttamente al pubblico da entrambi i personaggi – un chiaro manifesto d’intenti.
Ritengo infatti essenziale porre il pubblico al centro di qualsivoglia riflessione sul teatro contemporaneo. E il mio primo lavoro registico si pone un semplice e mai desueto obiettivo: cercare di coinvolgerlo il più possibile non relegandolo più al ruolo di mero spettatore.
Mattia Lauro